venerdì 1 gennaio 2010

La fede condizione necessaria e/o sufficiente per riconoscere l'altro?

Benedetto XVI è considerato da taluni un ottimo teologo e filosofo. Non mi sento in grado di giudicarne le capacità teologiche o filosofiche, ma diverse sue affermazioni non mi sembrano resistere al vaglio del buon senso e della logica, e ciò mi pare un indizio che va in direzione opposta alle giaculatorie dei suoi incensatori.

Naturalmente mi pare comprensibile che il "Sommo Pontefice" della Chiesa cattolica difenda le posizioni dei credenti, ma allo stesso tempo sostengo che anche un credente debba mettere in dubbio affermazioni traballanti come la seguente, pronunciata durante l'omelia del primo gennaio 2010:
solo se abbiamo Dio nel cuore, siamo in grado di cogliere nel volto dell’altro un fratello in umanità, non un mezzo ma un fine, non un rivale o un nemico, ma un altro me stesso, una sfaccettatura dell’infinito mistero dell’essere umano. La nostra percezione del mondo e, in particolare, dei nostri simili, dipende essenzialmente dalla presenza in noi dello Spirito di Dio.
Per semplificare, riduco la ricchezza semantica di questa affermazione alla più stringata "se e solo se si crede in Dio, allora si riconosce nell'altro un essere umano come sé stessi". Per "credere in Dio" si può intendere una varietà di posizioni differenti, da una più ampia credenza in una entità immanente, al politeismo, al monoteismo, al cristianesimo, al cattolicesimo. Per "riconoscere nell'altro un essere umano come sé stessi" mi rifaccio al riconoscimento a chi è differente da me - per sesso, etnia, religione, credo politico o morale e condizione sociale - gli stessi diritti fondamentali che riconosco a me stesso e a quelli che considero miei simili.

La prima domanda è: "la fede in Dio è condizione sufficiente per riconoscere nell'altro un essere umano nel pieno dei suoi diritti?" Se la risposta fosse sì, potrei elencare tutti i casi in cui nel passato e ancora oggi si riconoscono o meno i diritti umani all'altro e scoprire che tutte le volte che c'è fede in Dio, c'è anche riconoscimento dell'altro. Per poter dire no, basterebbe trovare almeno un caso in cui l'avere fede in Dio non si accompagni con il riconoscimento dell'altro (sto analizzando il caso se la condizione sia sufficiente). Non credo sia così difficile capire che la fede in Dio si è spesso accompagnata con l'intento di sottomissione e di annullamento del diverso. Nel mondo antico, la sconfitta della città nemica era vista come sottomissione delle divinità che la proteggevano a quelle della città vittoriosa, e questa sottomissione giustificava la sottomissione (e la schiavitù) degli sconfitti ai vincitori. Sia la Bibbia ebraica che il Corano giustificano la sottomissione e la distruzione di coloro che non credono nell'"unico vero Dio" proprio sulla base di una diversità religiosa. Infine, anche a chi ha una conoscenza minima della storia occidentale non può sfuggire come i cristiani abbiano sottomesso, ucciso e discriminato, proprio sulla base della loro fede, pagani, ebrei, musulmani, donne ed "eretici". Credo dunque che si possa affermare che la fede in Dio non è condizione sufficiente per riconoscere nell'altro un essere umano nel pieno dei suoi diritti.


La seconda domanda è: "la fede in Dio è condizione necessaria per riconoscere nell'altro un essere umano nel pieno dei suoi diritti?" Se la risposta fosse sì, potrei elencare tutti i casi in cui nel passato e ancora oggi si riconoscono o meno i diritti umani all'altro e scoprire che tutte le volte che c'è riconoscimento dell'altro, c'è anche fede in Dio. Per poter dire no, basterebbe trovare almeno un caso in cui il riconoscimento dell'altro non si accompagni con l'avere fede in Dio (sto analizzando il caso se la condizione sia necessaria). Dunque la domanda ha la risposta opposta a quella della domanda "esistono o sono esistite persone che hanno riconosciuto l'altro senza avere fede in Dio"? Mi pare lampante che sia così. Basti pensare ad Epicuro, che non era certo un fedele, e che pure credeva nell'egalitarismo umanitario, tanto da essere il primo ad ammettere donne e schiavi alla sua scuola. Dall'antichità ad oggi questo pensiero si è dipanato come un fiume lento, che oggi ha la forma di movimenti come l'Umanismo. Credo dunque che si possa affermare che la fede in Dio non è condizione necessaria per riconoscere nell'altro un essere umano nel pieno dei suoi diritti.

Al di là, dunque dei meriti filosofico-logici di Benedetto XVI, quello che mi preme sottolineare è che la donna e l'uomo di oggi non hanno bisogno ricorrere al sentimento religioso, eredità di un passato lontano ed oscuro, per riconoscere i diritti di tutti gli esseri umani, per conoscere e perseguire il bene, nel mondo di oggi.

La segnalazione del messaggio del Papa è stata pubblicata nel post "Il papa: gli atei sono incapaci di cogliere l’umanità del prossimo" del sito della UAAR. Il simbolo dell'omino felice ("Happy Human") rappresenta l'Unione Internazionale Etico-Umanistica (IHEU).

4 commenti:

  1. Benedetto XVI è una persona troppo attenta e intelligente per commettere certe imprudenze e utilizzare a sproposito le parole.

    Stiamo parlando delle parole di un Papa: quindi usa un linguaggio di fede; Come un informatico usa l'informatichese, anche nella religione ci sono linguaggi, espressioni, parole che hanno un significato proprio. Prima di giudicarle con i parametri "normali" bisognerebbe chiedersi quale è il significato "in questo determinato contesto" per poter capire e solo dopo, eventualmente, fare delle riflessioni.

    La tua lunga polemica trae spunto dal fatto che hai interpretato subito l'espressione "avere Dio nel cuore" come sinonimo di "credere in Dio". E così hai concluso che il Papa arroga a se e alla Chiesa il "monopolio del Bene". Quale assurdità! Mai la Chiesa si è arrogata questo monopolio. Tanto è vero che il bene può venire da tutti gli uomini "di buona volontà". Già S. Giustino nel 180 a.C (siamo proprio agli arbori del Crisianesimo) si interrogava su questo, concludendo che "tutto il bene mai commesso dall'uomo" proveniva dallo Spirito Santo.
    Lo Stesso Cristo spiega questo in varie parabole e occasioni (se ti interessa possiamo approfondire). La differenza fra un cristiano e un non cristiano non è che il primo è più buono perchè crede (mai ha affermato questo ne Cristo ne i cristiani, anzi il contrario!) ma la differenza è che il primo è cosciente che quel bene proviene dallo Spirito Santo mentre il non credente non lo sa: ma in tutti gli uomini c'è un combattimento spirituale, guidato nel bene dallo Spirito Santo. Nella nuova creazione infatti, non saremo giudicati per la nostra fede, ma per l'esercizio della carità. Anzi... a chi ha molta fede sarà chiesto anche di più (cfr. parabola dei Talenti).

    Detto questo nell'espressione "presenza in noi dello Spirito di Dio" non si riferisce certo ai cristiani, ma a tutti gli uomini: si sta semplicemente riferendo a chi opera secondo la Sua volontà (in parole povere chi esercita l'amore per il prossimo).

    Se Bendetto XVI avesse detto:

    solo se crediamo in Dio siamo in grado......
    .....dipende essenzialmente dal nostto credere in Dio.


    Allora si, sarei d'accordo con te. Ma questo sarebbe stato profondamente contrario a ogni principio cristiano di sempre: sarebbe stato un errore veramente grossolano del papa, roba da ragazzino da primo catechismo.

    La prossima volta, quando leggi qualcosa del Papa che "ti suona storto" prova a chiederti se forse qualche cosa non l'hai capita, oppure se stai fraintendendo qualche espressione, invece di buttarti a capofitto sulla "ghiotta preda" che pensi di aver smascherato. Dubitare delle proprie certezze è un buon esercizio. Magari chiedi a chi mastica di più certe cose. Io faccio pesso così e ne trovo giovamento.

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  2. "Benedetto XVI è una persona troppo attenta e intelligente per commettere certe imprudenze e utilizzare a sproposito le parole. [...] Stiamo parlando delle parole di un Papa: quindi usa un linguaggio di fede; Come un informatico usa l'informatichese, anche nella religione ci sono linguaggi, espressioni, parole che hanno un significato proprio. Prima di giudicarle con i parametri "normali" bisognerebbe chiedersi quale è il significato "in questo determinato contesto" per poter capire e solo dopo, eventualmente, fare delle riflessioni. [...] La tua lunga polemica trae spunto dal fatto che hai interpretato subito l'espressione "avere Dio nel cuore" come sinonimo di "credere in Dio". E così hai concluso che il Papa arroga a se e alla Chiesa il "monopolio del Bene". Quale assurdità! Mai la Chiesa si è arrogata questo monopolio. Tanto è vero che il bene può venire da tutti gli uomini "di buona volontà". Già S. Giustino nel 180 a.C (siamo proprio agli arbori del Crisianesimo) si interrogava su questo, concludendo che "tutto il bene mai commesso dall'uomo" proveniva dallo Spirito Santo."

    Bello il refuso che mette Giustino di Nablus nel 180 a.C., fai bene a parlare di albori del Cristianesimo! :-) Ma torniamo alle cose serie.

    Benedetto dovrebbe rendersi conto che le sue parole sono diffuse nel mondo e lette e interpretate da milioni di persone. Dovrebbe fare lo sforzo di esprimersi in maniera chiara e non specialistica, dato che non può pretendere che tutti conoscano il suo registro comunicativo. Non ti sembri arroganza la mia, ma esperienza: credo che tu conosca il caso della lezione di Ratisbona, dove, al di là degli interessi altrui ad alterare il suo messaggio, fu lui a scegliere un modo troppo "alto" di esprimersi, che causò effetti ben al di là del normale confronto tra religioni.

    Quando una persona dice "avere Dio nel cuore", e in special modo quando quella persona è il capo incontrastato di una delle maggiori religioni mondiali, è inevitabile leggerci un senso religioso. "Avere Dio nel cuore", "presenza in noi dello Spirito di Dio", non sono sinonimi di "comportarsi in maniera caritatevole", significano "credere in Dio". Ogni altra interpretazione di quelle parole, come quella da te proposta, può essere valida solo per chi, come te e Giustino appunto, crede che il bene operato dagli esseri umani provenga dallo Spirito Santo; pertanto non dovrebbe essere una interpretazione ritenuta condivisibile da tutti.

    Infine, ti invito a riflettere su di un fatto. Se la locuzione "presenza in noi dello Spirito di Dio" è un riferimento a chi "esercita l'amore per il prossimo", la frase del Papa sarebbe traducibile in italiano corrente come "solo se perseguiamo il bene, siamo in grado di cogliere nel volto dell’altro un fratello in umanità, non un mezzo ma un fine, non un rivale o un nemico, ma un altro me stesso, una sfaccettatura dell’infinito mistero dell’essere umano. La nostra percezione del mondo e, in particolare, dei nostri simili, dipende essenzialmente dall'esercitare l'amore per il prossimo". Secondo la mia opinione, questa interpretazione rende il discorso del Papa molto banale, dato che lo riduce al concetto "riconosciamo l'altro solo se non lo trattiamo come un oggetto", non credi?

    Grazie per l'intervento.

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  3. Ma il testo non era tratto da un'omelia? Un omelia si rivolge per definizione ai credenti (perchè detta in una messa), quindi presuppone la presenza di un pubblico credente.

    Su Giustino: si: comico il refuso :-) Comunque pare sia morto massimo nel 168 d.C., quindi ancora prima del 180.

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  4. Certo, ma mica è un prete di campagna, è il Papa, lo sa che quello che dice viene letto in tutto il mondo!

    Un saluto

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